Dopo dieci anni di assenza, Anna Magnani è tornata al teatro, a Firenze, con La lupa di Verga.

E’ stato un successo trionfale.

Dopo averla accolta con un grande applauso di simpatia all’entrata in scena, il pubblico ha tributato una interminabile, calorosa e clamorosa ovazione all’attrice, che sembrava aver dominato con assoluta sicurezza tutto lo spettacolo.

Ma era un’illusione ottica.

Anna aveva, sì, dominato e riempito non solo dei suoi gesti e parole, ma anche dei suoi silenzi e della sua immobilità quel palcoscenico della Pergola, pur così vasto e gremito di personaggi, grazie alla magnetica forza ch’essa sprigiona e di cui è del tutto inconsapevole.

Ma di sicurezza non ne aveva punta.

Anzi, tremava come una foglia; per la paura e l’angoscia aveva la febbre a trentasette e cinque, si era dovuta fare un’iniezione, era stravolta. E il pallore e le occhiaie che forse molti spettatori avevano attribuito al trucco, erano veri.

Io, che l’aspettavo in camerino, me la vidi tornare che sembrava una lupa davvero, una reduce dall’inseguimento di una muta di cani, e i cernecchi ritti e in disordine, le pupille dilatate dal terrore.

Mi s’appese al collo e, mentre gli applausi seguitavano a scrosciare in sala, diceva battendo i denti: «Non ce la faccio più… portami via!… Portami via!… Non ce la faccio più!…»

Pare impossibile.

Con tutti gli strepitosi successi che ha all’attivo, con tutta l’esperienza che ha sulle spalle, con tutto ciò che ha fatto, e detto, e talvolta perfino sbraitato, per accreditare la fama del suo caratteraccio (e purtroppo c’è riuscita), per Anna il contatto con il pubblico resta sempre un’ora della verità che le fa cadere la maschera dal volto e la rivela qual è sempre stata: una creatura timida, irresoluta e ubratile, che qualche volta cerca di far paura agli altri per far coraggio a se stessa.

Nemmeno il trionfo riesce a darle fiducia. Quello c’è successo l’altra sera alla prima della Pergola sono sicuro che si sta ripetendo ogni sera e seguiterà a ripetersi a Parigi, a Zurigo, a Vienna, dovunque Zeffirelli porterà lo spettacolo.

La Lupa Anna Magnani

Ogni sera Anna avrà la febbre, dovrà ricorrere all’iniezione, entrerà in scena come una regina e ne uscirà, fra le acclamazioni della platea entusiaste, come una comprimaria fischiata.

Il dramma della Lupa per lei cominciò molto prima che accettasse di recitarlo: bastò a immergervela la proposta di diventarne la protagonista.

Quando me lo disse, mi sembrò che non dovesse tentennare. Sapevo che Anna smaniava di tornare al teatro. E, sebbene non ne conoscessi la riduzione per la scena, ricordavo la novella di Verga quanto bastava per rendermi conto che il personaggio sembrava disegnato apposta per lei.

Ma non glielo dissi, perchè a dare ad Anna dei consigli diretti, c’è sempre il rischio di ottenere l’effetto contrario. Indecisa a tutto, essa è però decisissima a esitare da sè. E bisogna secondarla. Ma non è un’impresa facile perchè Anna molto spesso impegna tutto il suo talento nel non capire. E siccome di talento ne ha a tonnellate, potete immaginare il risultato.

Un regista sciocco ha detto che Anna non sa mai quello che fa.

E’ esattamente il contrario. Anna sa troppo quello che fa. Il suo difetto è un eccesso di coscienza. Ne ha tanta e di tali esigenze, che vi smarrisce persino la misura del proprio valore. La sua autocritica sconfina spesso nell’autolesionismo.

Aveva già mandato a memoria tutta la parte, e ancora dubitava non solo che il personaggio convenisse a lei, ma che lei convenisse al teatro.

A obiettarle che la prova era già stata fatta da un pezzo, e con risultati che non ammettevano perplessità, rispondeva che il pubblico era cambiato, che forse non sarebbe venuto nemmeno a sentirla. E come al solito, bisognava lasciarle dire tutte queste sciocchezze e aspettare che si accorgesse da sola quanto fossero infondate.

Poi era colta dall’inquietudine per la voce. Non perchè ne ha poca; ma perchè da vera grande attrice, tira a smorzarla là dove le attrici mediocri tirano ad alzarla.

«Ma in quei passaggi – la rassicuravo – tu avrai creato una tale suspense che il pubblico sarà a orecchi tesi per sentire quello che dici».

Questa mia fiducia, invece di confortarla, la incattiviva. «Tu mi parli da amico, cioè da stupido, e mi fai sbagliare. Se mi vuoi bene davvero, è da nemico che mi devi parlare».

Cercavo di parlarle da nemico. Le dicevo che forse aveva ragione, forse faceva meglio a non correre rischi e a rinunziare. L’effetto era sicuro. «Aò –  insorgeva – ma che ti credi? …Io sono Anna Magnani!». E per ventiquattr’ore si stava tranquilli.

Ma l’indomani si ricominciava. Ora era il testo a inquietarla.

E qui il contraddittorio diventava difficile perchè Anna, quando si tratta di giudicare qualcuno o qualcosa che non sia la Magnani, è di un intuito e di un’acutezza da far invidia al critico più agguerrito e penetrante.

Alla prima lettura, ha già pesato un lavoro e capito non solo tutte le possibilità che offre, ma anche tutti i pericoli che comporta. E’ il senso della responsabilità, quando ve l’ha impegnata, che le offusca gli occhi e le appanna la mente.

Al contrario di quel che pensa la gente, che la crede tutta affidata all’estro, all’intuito e all’improvvisazione, Anna è una tribolatissima sgobbona.

Prima di entrargli nella pelle, gira intorno al proprio personaggio per settimane e mesi, lo rivolta da tutte le parti, se lo prova pezzo a pezzo, lo imbastisce, lo scuce, lo ritaglia.

Lo tratta come un amante, cioè tenendolo a una rigorosa dieta di graffi o di carezze. Gli fa un processo al giorno: ora per assolverlo, ora per condannarlo e metterlo in croce. Non pensa ad altro. E non permette a nessuno di pensare ad altro.

E’ un’amica difficilissima. Anzitutto per i suoi orari: Anna vive di notte perchè la paura del buio le impedisce di dormire e la stana dalla sua selvatica solitudine. Eppoi per i suoi imprevedibili e cagionevoli umori.

Io considero Anna la mia sauna. Quando annunzia una sua visita (ma di solito viene senz’annunziarsi), l’unica cosa che ignoro è se si comincia dal freddo o dal caldo. Però so benissimo che ci sarà imparzialmente da sudare e da rabbrividire.

Nell’arco di un’ora essa condensa, ed esaurisce la vicenda di un’amicizia in tutta la sua gamma sentimentale dall’indifferenza alla diffidenza, alla simpatia, all’affetto, all’amore, all’entusiasmo, alla delusione, all’odio, al ripudio; o viceversa.

Poi scompare per una settimana o per un mese. Ma ritorna. Ritorna sempre, purchè non la si cerchi.

Ci sarebbe da scrivere un trattato sul modo di usare Anna.

La prima precauzione da prendere è quella di non farla ritrovare in mezzo a estranei. Timida com’è, pur dopo un’esistenza trascorsa sotto i flashes, la gente la raggela e la chiude in un mutismo ostile o l’aizza ad atteggiamenti protervi.

Delle poche persone che le ho presentato, l’unica che la sedusse immediatamente fu il mio collega Augusto Guerrero, perchè il discorso cadde sui cani e sui gatti: e questo è un argomento su cui il cuore di Anna si scioglie e la mente le si ottenebra.

Si mise in testa che noi due, con un articolo, potevamo far riformare la legge sulla protezione degli animali. E invano cercammo di dimostrarle che il problema non era di leggi, ma di costume. Non sentì ragioni.

Dovemmo prometterle l’articolo (che poi infatti scrivemmo). In compenso, al colmo dell’entusiasmo, essa ci condusse nella sua bella casa di palazzo Altieri per farci sentire il merlo indiano che parla.

Il merlo, forse seccato di quel brusco risveglio nel cuor della notte, si chiuse nel proprio mutismo. Seguì una scena che avrebbe meritato la macchina da ripresa e il nastro del registratore.

Con le mani sui fianchi, Anna discuteva col merlo da pari a pari, ora chiamandolo con tenerezza “tesoruccio mio”, ora dandogli, con furore, dello scostumato.

«Ma guarda – diceva – che figura mi fai fare!… Io ti porto qui due persone importanti che scrivono sui giornali, e tu… Si può essere più disgraziati di così?… E parla, via!… Di’ qualcosa a Nannarella tua!… Ammazzalo, oh, che impunito!… Be’, lo sai che ti dico?… Che non te la meriti Nannarella tua!… No, non te la meriti…».

Gli voltò inviperita le spalle. Ma aveva appena varcato l’uscio, che il merlo si mise a strepitare: «Nanna!… Nanna!… Nanna!…». Anna non si volse. «Non c’è che dire – mugolò con gioia vendicativa – è proprio un maschio…».

Da un pezzo non faceva più nulla, nè il cinema nè il teatro, non per mancanza di offerte, ma per incapacità di compromessi con se stessa.

Anna è un’attrice che non può salire su gradini più alti, ma che non accetterà mai di scendere su uno più basso.

E’ nata protagonista, non potrà mai essere altro, e lo dimostrano proprio i suoi sgomenti e terrori.

Vince ogni sera perchè ogni sera rimette in giuoco la sua carriera, ed entra in scena tremando un po’ per la febbre, un po’ per l’angoscia.

Queste emozioni da debuttante, questa allergia al professionismo, sono il segno e la condizione della sua grandezza.

Forse Anna non mi sarà mai grata di aver rivelato questi suoi segreti smarrimenti, questa sua fragilità emotiva.

Ha penato tanto, poveraccia, per costruire e accreditare un personaggio del tutto opposto: scarmigliato, arruffato, aggressivo, schiamazzante. E anche questa parte le è riuscita.

Ma non è che una parte.

Indro Montanelli
(Foto copertina © Angelo Frontoni)


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