Anna Magnani abita all’ultimo piano di Palazzo Altieri, uno dei più belli di Roma, costruito verso la fine del seicento, durante il pontificato di Clemente X. E’ un palazzo ricco di grandi scaloni e imponenti balaustre ma per andare da Anna Magnani il portiere vi obbliga (con tutta cortesia, naturalmente) a prendere l’ascensore. Proprio di fronte al cancelletto dell’ascensore c’è la porta del suo appartamento.

La prima cosa che capita di osservare è un certo numero di gatti pigramente sdraiati sul pavimento, talmente abituati ai visitatori che occorre saltellare qua e la per non pestarli, senza che da parte loro ci sia il benché minimo segno d’imbarazzo.

Una sorta d’imbarazzo lo avevo io, lo confesso, a trovarmi a tu per tu con la nostra attrice; mi sgomentava, soprattutto, quella sua un po’ leggendaria ormai (come dire?) spontaneità, e per trovarmi subito un argomento pronto mi misi a curiosare nella biblioteca posta all’angolo del salotto: c’era di tutto, dai romanzi gialli ai volumi di versi, di critica. Scelsi un libro di teatro, era La Dame aux Camélias di Dumas; lo stavo sfogliando, quando entrò la Magnani. Mi tese subito la mano, mentre un sorriso franco, aperto, le illuminava il volto abbronzato.

Due Anne

Il principio fu come l’avevo previsto.

– E che aspetta a mettersi seduto?

Io accennai, muto, al libro che avevo ancora in mano.

– Ah, ecco, lei non è quello del cinema.

– Sono del teatro, trovai la forza di incominciare.

Ecco perchè guarda ‘La Signora delle Camelie’. Io lo voglio fare. Vorrei fare quello. ‘La Lupa’ di Verga e vorrei fare anche ‘La Carrozza del Santissimo Sacramento’ di Mérimée, che ho fatto adesso in cinema con Renoir.

Io volevo ringraziarla, dirle che era stata molto gentile a ricevermi subito dopo aver avuto il mio biglietto, spiegarle la ragione per la quale ero venuto. Ma lei era partita, e oramai bisognava soltanto starla a sentire. Faceva caldo, o almeno io sentivo caldo, e allora mi sbottonai la giacca.

Aho, se scafano, ‘sti romani! gridò lei interrompendo il discorso su Renoir e fissando una malaugurata cravatta a colori vivaci. Poi rincarò la misura dicendomi ancora, ridendo:

Lei allora beve il Coca-Cola!

Così il ghiaccio era, grazie a lei, rotto, e potevamo cominciare a discorrere.

Volevo sapere se era soddisfatta del lavoro fatto del film con Renoir.

Moltissimo, fu la risposta, lei non mi giudicherà male se io le dico che credo di avere due modi di recitare, proprio come se fossi due Anne Magnani; una quella di ‘Roma Città Aperta‘, e magari di ‘Bellissima‘, e una quella de ‘La Carrozza d’oro‘, la Magnani del teatro, per capirci. Poi lavorare con Renoir mi piace molto. Mi ricordo di un giorno, che ero stanca e nervosa, e mi venne da piangere. E Renoir mandò via tutti, restò solo accanto a me e diceva: “Stai buona, Anna, stai buona; un’artista è una cosa così fragile“.
Anna disse queste parole quasi commuovendosi.

In questo ambiente, continuò, non ti dice mai nessuno cose come queste. Anche una come me che adesso può levarsi tutte le soddisfazione che vuole, è sempre schiava di tante cose, di tanti compromessi, di tanti equivoci! E menomale che io almeno ho dalla mia parte il pubblico, che mi ha preso per il verso buono, e non vorrebbe vedermi scendere a film di minore impegno!

Io volevo sapere se aveva progetti per il teatro.

Ho sempre progetti, fu la risposta, come non ho mai il tempo di portarli a termine. Le ho già detto che vorrei fare Verga, Dumas, Mérimée; Tennessee Williams vorrebbe che io andassi a recitare a Broadway e a Parigi ‘La Rosa Tatuata‘. Ma io non ho accettato: ho già fatto una fatica tale a girare tutta ‘La Carrozza d’oro’ in inglese, che io parlo a malapena (però mi sono sentita, e le assicuro che non è andata male, mi sono piaciuta, si), figuriamoci a recitare in teatro in una lingua non italiana. Forse del dramma di Williams si farà un film, con De Sica, in America: altro bel progetto che chissà se porteremo a termine. Con chi vorrei tanto recitare è Luchino Visconti, fare il teatro noi due insieme sarà una soddisfazione che ci dovremo togliere. Dopo ‘Bellissima’ io mi trovo così affiatata con lui che lavorare insieme sarà un’esperienza unica, veramente. Del resto le confesso che io oggi ho bisogno di sentirmi sicura, per il teatro specialmente.

Gatti bianchi

Voglio avere qualche mese davanti a me, per riprendere l’allenamento, la confidenza con il teatro. Si fa presto a dire che è la stessa cosa del cinema, a me il pubblico mi serve, e mi serve averlo lì, davanti, nella sala buia, sentirmelo legato addosso con gli occhi… E’ una sensazione tutta particolare, mi dica pure romantica, io anche al cinema ho bisogno del pubblico per capire com’è andata, per rendermi conto.
Quando faccio una scena ho sempre il mio pubblico; più che i compagni di lavoro, i macchinisti, gli operai.  C’è sempre qualcuno di loro vicino a me, e quand’è finita me li guardo; se li vedo con gli occhi lucidi vuol dire che è andata bene, e glielo domando, e loro magari mi rispondono a modo. Uno mi disse una volta: “Signò, siete andata forte assai!”, e tutti in genere dicono che ho lavorato bene; non dicono “recitare”, dicono “lavorare”, è gente che ha capito cos’è un attore, un’attrice. Come diceva Renoir è una cosa fragile, una cosa delicata…

Ho chiesto ad Anna Magnani se conosceva “Madre Coraggio” di Brecht, se sapeva che l’autore aveva espresso una volta la speranza che a recitare la sua opera in Italia fosse stata l’interprete di Roma Città Aperta.

Ne ho sentito parlare, e proprio in questi giorni avevo deciso di leggerla. Eccola, la porto con me al mare, al Circeo. Ma come faccio a permettermi questi lussi? Quando avrò tempo di fare qualche cosa come piace a me? Vorrei tanto avere un teatrino mio, un piccolo teatrino nel quale potessi recitare quando me ne venisse voglia. Potrei fare delle stagioni dove mi pare, all‘Eliseo, al Manzoni di Milano, ma quello che mi piacerebbe avere è un teatro per me, nel quale magari mettermi su da sola scene e costumi e dare spettacoli proprio in quei momenti che passano ogni tanto. Un mese fa non ne potevo più, se avessi avuto un buco dove andarmi a rifugiare, e lì parlare, parlare, parlare…

Uno dei gatti bianchi era arrivato sulle ginocchia, faceva le fusa, si stirava: la Magnani lo accarezzava come un bambino, con affetto, continuando a parlare.

Nella penombra il suo volto sembrava ancora più scavato, incorniciato dai capelli neri, spettinati alla pellerossa. Gli occhi e i denti spiccavano di tanto in tanto nell’oscurità, ma della sua voce ormai era piena la stanza. Sembrava una scena de “La voce umana“, la bocca della Magnani attaccata al ricevitore del telefono e le lacrime che le scendevano sul volto disfatto, tanto umano e ricco di dolore da sembrare di cera. Anche adesso era lo stesso.

L. Lucignani