Raccoglieva la cultura di Roma: Cellini, Belli e Petrolini. La complessità della sua persona nella coesistenza di una profonda malinconia trincerata dietro la risata con cui riempiva lo schermo

Anna non era un angelo. Ma la sua bontà e la sua umanità non avevano limite. Perciò, a tutto diritto, si può dire che con lei è morta una donna che, non soltanto nel linguaggio e nei modi che la resero celebre e amata, si era venuta impastando con la città di Roma.

Era alla Roma non angelica, impura anzi di tutte le impurità e le miserie della vita, ma aperta come le braccia del colonnato del Bernini alla più totale tolleranza e comprensione che Anna aveva ispirato la sua arte drammatica.

Sicché, nella finzione della bontà sapeva trarre il suono di tutte le corde della malizia, e nella finzione della malizia il suono di tutte quelle della bontà.

Occorre andare molto lontano nelle viscere di Roma per trovare le radici dell’umanità totale di Anna.

L’inizio potrebbe collocarsi nell’aura cupa e nei barlumi di sangue e d’oro dell’autobiografia celliniana. Il viluppo centrale nella vita stessa e nell’arte di Giuseppe Gioacchino Belli: nella contraddizione che fu tipica di quel grandissimo tra i poeti italiani, fra aspirazione alla salvezza e predestinazione al nulla.
Le fronde si confondono con la risata (l’autoironia atroce e sbilenca, simile a quella dei mimi di Plauto) di Ettore Petrolini, spezzata di tronco da «Sor Nonno co’ la farce», mentre proprio più fitta e matura andava facendosi nel tempo buio del fascismo.

Le vette delle fronde non hanno l’uguale poiché è ad Anna stessa che si deve il loro verde perenne in questa dura stagione (ahi, quanto breve, ma quanto lunga, anche, se si tien conto dell’oblio che il consumismo trionfante aveva decretato da qualche tempo al suo valore!) che l’ha vista andarsene via così, senza aver forse nemmeno il tempo di gettare tutto intero, sul secolo irriverente, il suo amaro e filosofico sberleffo. Ma non è difficile immaginarlo, questo, con tutta la oscenità di prammatica come avrebbero fatto, prevaricando il momento della paura, certo, e dell’orrore del vuoto, le fonti e i maestri di cui s’è detto: Cellini, Belli, Petrolini.

Quante volte, nella sua casa occulta di Palazzo Altieri, non nelle serate più loquaci e di mondo (un mondo assai ristretto di amici, peraltro), ma in quelle in cui soli, per anni e anni, parlammo dei casi amari dell’esistenza, e della lotta dell’uomo per affrancarsi dalla servitù e dal bisogno, e delle nostre stesse personali angustie, quando giungevamo al qua della possibilità per il mondo di riscattarsi davvero, Anna armava quel suo mutismo inquieto come di nube carica di bufera e poi, con un sorriso che strappava le lacrime diceva: «Ma tu, ce credi? Davero?».

Ho nelle orecchi e nel cuore il dubitativo concertato di tutte le sue passioni di vita, la sua volontà di afferrarsi alla certezza delle cose, la sua diffidenza quasi congenita, il suo represso bisogno d’amore, la sua esplosione di umanità così ricca, così ricca da far intendere tutto intero il processo psicologico della sua formazione di attrice: la coesistenza, nella stessa persona, di due spinte opposte e complementari, quella dell’avarizia e del possesso – quella della prodigalità e dell’abbandono di tutto ciò che le apparteneva.

Una grande attrice tragica all’italiana, quale Anna fu, essendo interamente impastata nella realtà specifica d’un luogo e d’una cultura.

Il luogo per l’appunto fu Roma «città di sempre solenne ricordanza» secondo quanto il Poeta afferma nella sua introduzione ai “Sonetti”. E non è a caso che i due ritratti più emozionanti di sé medesima e di Roma, Anna li abbia dati in due film che al nome di Roma si richiamano: Roma Città Aperta e Mamma Roma.

Chiudete un momento gli occhi.

Di Anna vi troverete sicuramente impressa l’immagine sua propria, di sé medesima seduta sulle scale della casa di via Tiburtina mentre chiacchiera d’amore con l’operaio romano che, poco dopo, nel rombo confuso delle urla dei tedeschi e del suo grido disperato, sarà portato via. E, assieme a questa, l’immagine sua propria di «mater dolorosa» che fa danzare al figlio il tango col casché nella Roma di oggi, amara di quell’amaro e amorosa di quell’amore che c’è nei libri primi di Pier Paolo. E’ un immagine, al tempo stesso, da teatro dialettale e da tragedia universale.

Perché ad Anna va reso finalmente tutt’intero il merito di non aver mai tradito nel cinematografo, il suo vero volto, di grande costruttrice della commedia, di artista del dramma, che recita a tutto tondo, e per lunga gittata, che recita per identificare la vita, non soltanto per rappresentarla.

Forse Federico Fellini è, pur non avendola mai avuta nei suoi film, quello che con Rossellini e Pasolini se n’è accorto meglio e di più, in quella intervista lampo del suo film Roma, dove la risata di Anna riempie quasi lo schermo e i suoi occhi, poi, si rabbuiano con una malinconia e una ansia d’amore che non è possibile dimenticare.

Antonello Trombadori


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