Non di rado avviene che un autore e un attore riescano a plasmare dei film destinati ad attraversare la storia (almeno quella cinematografica). Questo è più o meno ciò che è avvenuto tra Pier Paolo Pasolini e Anna Magnani in “Mamma Roma(1962).

Pasolini, in seguito all’esordio cinematografico con “Accattone”, è ispirato dalla figura di questa prostituta romana, a tratti atipica, inserita pacificamente in un ambiente dal quale però vuole fuggire con intelligenza, tenacia, tragica astuzia.

Come dichiarato dallo stesso autore, con ingenua sincerità, il volto di questa donna è quello della Magnani non solamente per una naturale fisicità che si impasta all’estrosità romana, ma anche e soprattutto perché è sintesi di creatura protesa all’ottenimento di uno status sociale garantista, mediamente accettato e di madre che si dona alla propria creatura senza riserve.

Mamma Roma è una donna anticonvenzionale più del mondo in cui vive ed esercita la propria professione. Una realtà, quella della prostituzione romana, anacronistica rispetto all’evoluzione parlamentare e giuridica (ma non certo culturale) rappresentata dall’emanazione della legge Merlin del 1958 (che regolamenta la dismissione delle cosiddette case chiuse, bordelli cittadini tollerati, quale goffo tentativo di moralizzazione sociale).

Realtà scandalosa solo in apparenza nella quale convivono mignotte giovani e vecchie, belle e brutte, marchettari, papponi, approfittatori e clienti di ogni estrazione sociale, militari e civili. La prostituzione femminile e maschile condivide le stesse strade anonime, le stagioni che si ripetono sempre uguali, i silenzi, il castigo di quella condizione concepita come una scelta di vita che presto si trasforma di fatto in non vita.

Nel film di Pasolini è evidente una tragica armonia che regola le vite di questi personaggi, liberi in prigioni costruite attorno alle loro azioni. Sullo sfondo, una Roma incolore, una città solenne, austera, dignitosa.

Il film comincia con un banchetto nuziale, un evento gioioso, un nuovo inizio per gli sposi, le loro famiglie, ma anche per Mamma Roma. Difatti, a sposarsi è Carmine (Franco Citti), il protettore di Mamma Roma, che può finalmente affrancarsi. Ma in questa ritrovata libertà vuole essere provocatoria nei confronti del suo recente passato, irriverente, comunque protagonista in una situazione che dovrebbe rappresentare un tacito e umile allontanamento da quell’uomo e tutto ciò che di sporco ha simboleggiato.

Mamma Roma, però, non sa serbare un vero rancore, alla vita risponde con risate amare e strepito, tanto da condurre in sala addirittura due maiali, quasi a indurre gli ospiti a riconoscersi in quelle bestie sudice che non hanno però consapevolezza delle miserie morali.

Ora Mamma Roma può finalmente dare a suo figlio Ettore (Ettore Garofalo) una vita “pulita”, onesta e un futuro nobile e dignitoso. Il ragazzo, in piena adolescenza, è però cresciuto fuori Roma (a Guidonia, cittadina geograficamente poco distante dalla capitale) e senza malizie, istruzione o senso della realtà, inconsapevole dell’attività della madre. L’impatto con Roma è imbarazzante, il ragazzo si dimostra impacciato a relazionarsi anche con la donna che lo ha messo al mondo.

Mamma Roma comunque non si perde d’animo e alternando (per un breve periodo) il suo lavoro notturno in strada con quello giornaliero, gestendo un banchetto di frutta e verdura, trova stabilità economica.

Nel frattempo, suo figlio si insinua nel tessuto sociale con i nuovi compagni d’avventure, ragazzi della sua età che vivono alla giornata, bazzicano senza meta: è tempo di trovare stabilità anche per Ettore.

Mamma Roma si rivolge ad un sacerdote, sperando in una raccomandazione, confidando in quella misericordia e comprensione cristiana che però non esclude il riconoscimento e il peso dei propri errori. Il parroco le rimprovera la negligenza e il disinteresse dimostrato nell’educazione e la cura del figlio, il libero arbitrio è un’arma a doppio taglio e il pentimento non rappresenta necessariamente e automaticamente una sanatoria morale per il peccatore. Ma la donna riesce lo stesso ad ottenere il risultato, per vie traverse, con astuzia, mettendo in scena un finto ricatto nei confronti di un ristoratore.

Ettore comincia a lavorare come cameriere in una trattoria e l’orgoglio materno si condensa nelle lacrime di gioia e soddisfazione di Mamma Roma. Questa stabilità, tuttavia, dura ben poco perché Ettore non riesce a vivere del suo lavoro. Ormai è un uomo, ha vissuto le sue prime esperienze sessuali, con un candore che si trasforma in spavalderia, che lo porta a rifiutare l’autorità materna e ribellarsi ad essa.

L’arresto in seguito al tentato furto in un ospedale gli spalanca le porte dell’abisso: Ettore si ammala, rimane legato ad un tavolo per giorni interi, senza cure.

Nell’attesa e nel delirio, si rassegna a rimanere immobile, costretto dalle fasce di contenzione, e invoca sua madre. Quella madre che non può salvarlo più, quella madre che aveva deriso e disprezzato. In questa disperazione chiede perdono a tutti, anche a se stesso: ritorna bambino, promette di cambiare ma nessuno raccoglie le sue suppliche. Muore circondato da una strana indifferenza.

Alla notizia della morte del figlio, Mamma Roma reagisce tentando il suicidio quale ultimo atto di una tragedia già compiuta.

Il personaggio della Magnani è risultato di un compromesso non facile tra l’attrice e Pasolini.

Quest’ultimo si rende ben presto conto dell’incapacità di utilizzare Anna quale mezzo per un fine preciso: indomabile l’artista, ancora di più la donna. La Magnani è mossa dalla forza della storia, il personaggio la cattura e la entusiasma, ma non riesce ad affidarsi totalmente al regista. Gli scontri sul set si mantengono sempre civili, ma Pasolini non si pente della sua scelta che anzi (come dichiarato) rifarebbe.

La Magnani sembra però non armonizzarsi pienamente al metodo di lavoro di Pasolini, risultando estranea a quel contesto con la sua recitazione, diremmo, “professionale”.

La “colpa” non è rinvenibile né nell’attrice, né nell’autore: la colpa semplicemente non c’è.

Nonostante questo, anche la difficoltà del personaggio impone alla Magnani di modulare e regolare il proprio registro recitativo e in molte scene si nota una certa “forzatura”.

Mamma Roma non è la Magnani che il pubblico aveva conosciuto fino a quel momento, ma qualcosa di nuovo e diverso. Anche psicologicamente il personaggio sfugge, è scostante, contraddittorio. Basti pensare che in “Mamma Roma” il vero disgusto “di genere” non è rivolto agli uomini ma, quasi incomprensibilmente, alle donne: nei loro confronti non prova ammirazione né stima alcuna, ritenendole “tutte zozze”, maliziose, cattive, insensibili.

Alla fine di questo bizzarro esperimento, “Mamma Roma” riesce ancora oggi ad imporsi all’attenzione degli spettatori, affascinando.

di Mariangelica Lo Giudice
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