Ogni spettatore giudica e ha il diritto di figurare nella scala degli esperti, in quanto amatore specializzato di quella particolare arte collettiva che è il teatro, lo spettatore è, pertanto, un critico, mentre, al tempo stesso, dentro di se, è un attore e, fuori, fa parte della rappresentazione nel partecipare allo svolgimento dei fatti scenici ed ai dialoghi col suo spirito, che ha un magnetismo e una comunicatività.

Alla creazione scenica egli presta la intera propria sensibilità e fantasia.

Ognuno, a teatro giudica. E pretende. Ma quale assurda pretesa è mai quella di richiedere da un artista l’arte ogni sera! L’arte, come “dovere”, è un assurdo: un controsenso. II verseggiatore o paroliere può inventare all’impronto, o a tavolino, una o cento strofe, ma un poeta riesce a “ricevere” la poesia, quando essa viene.

L’arte d’imitazione è una “libido”, un impulso naturale che, una certa sera, può darsi sopito. Come nella vita erotica l’essere umano ha le giornate e i momenti, così in tutte le espressioni dell’impulso poetico ha gli estri o le assenze. L’attore che si affitta, prendendo l’impegno di produrre l’arte ogni sera, non può che giocare al surrogato, non può che progettare brave turlupinature.

Egli sa di dover ricorrere allo stampigliato in serie, per far fronte all’impegno preso. La Duse, quella certa sera nella quale si sentiva depressa, faceva restituire i soldi agli spettatori dicendo candidamente che non si sentiva di recitare. Per lei entrare in scena equivaleva ad avere l’ispirazione al volo e la capacità della librazione. Quella data sera essa presentiva che sarebbe restata a terra. L’impresario ci ammattiva, ma lei insisteva.

Nella storia abbiamo cento casi di artisti che si ritirano dall’arte perchè caduti in un periodo negativo della produzione artistica. Dopo tanti anni li vediamo ritornare. Forse per poco.

Essi sono i galantuomini: gli artisti che si rispettano. Non soltanto una carenza di libido poetica li può aver costretti a desistere, per sempre o per un periodo; ma la nausea del clima-ambiente, il disgusto da circostanze, intollerabili a un sensibile o la stanchezza della lotta materiale contro le difficoltà.

L’artista-capocomico-impresario con relative preoccupazioni e, magari, angosce, è una stupida crudeltà inventata dalla sfrenata ambizione dell’attore, ansioso da una parte di poter liberamente scegliere le belle parti e non le commedie, dall’altra bramoso di guadagni commerciali.

Ma l’artista-impresario è uno stato d’assurdo, intollerabile nel caso di rischi che, emozionando, distraggono dall’arte. La funzione impresarile può quasi interamente sopprimere l’artista, viziandolo a recitare permanentemente con surrogati: di maniera. Ecco l’attore vendere al pubblico i suoi pezzi prefabbricati in serie, come un industriale le casseruole d’alluminio.

Io parlo, beninteso, pensando al temperamento italiano. Resto sempre stupefatto, all’estero, nel veder con quanta esattezza gli attori ripetono lo stesso lavoro alla 2000ª replica. Quelli sono fonografi di precisione: possono mettersi, quando vogliono, in una certa temperatura, simulandola e riuscendo nell’inganno.
Sono com’è, nella pittura, il “trompe l’oeil” o come sono quello stupende stampe a colori che oggi riproducono con strabiliante esattezza perfino il rilievo dei grumi di canapa nella tessitura della tela, e vien voglia di toccare col polpastrello.

L’identità è prodigiosa; a parte quel non so che, deplorato sempre, sin nella più perfetta riproduzione di suoni con macchine. Lo stesso nonnulla fa diverso il teatro dal cinema e dalla TV.

Anna Magnani non è affatto disposta a recitare ogni sera. Si cominci con dire che, dopo la prova generale, il lavoro la interessa molto meno. La première la interessa ancora, per ambizione al riconoscimento esterno; ma, artisticamente, essa l’interesse l’ha esaurito alle prove.

L’atto fecondativo si prepara alle prove e si realizza alla “generale” . La prima rappresentazione è dimostrativa. La replica interessa più l’impresario che l’attore.

Il teatro-dovere è una sottile crudeltà, vero martirio cinese. Siamo feroci, noi, quando pretendiamo che gli attori recitino bene ogni sera. Potranno recitar pulito, preciso, non più.

Ruggeri si metteva tranquillamente a sbadigliare e ci comunicava la sua noia di quella sera, recitando ad imitazione di se stesso, ciò che gli era facile. Io spero che quel viso di malumore gli venisse a causa del mestiere: che il mestiere lo disgustasse.

Nella scommessa fatta con la critica, col pubblico, con la storia, l’artista è costretto a combattere come un gladiatore schiavo. Egli la poesia l’ha salutata da un pozzo! Ecco da dove nasce la nausea per l’arte.

Per obblighi estranei all’ispirazione l’attore si trova a dover imitare senza suo divertimento; mentre, invece, l’arte vera, come poesia non come mestiere, vuol essere un gioco spontaneo, uno sfogo naturale.

L’attore della “commedia all’impronto”, man mano che era in scena si destava e, come l’appetito viene mangiando, si poneva in umore positivo, cioè in stato creativo, senza rischio di nausea, perchè il fatto era nuovo ogni sera, ogni minuto.

Che cosa è la commedia improvvisa? E’ la risposta al temperamento stufaiolo degli italiani. Bisogna servire Dio con letizia. L’attore che fa restituire i soldi al pubblico che aveva acquistato il biglietto, non vuol rubare! Chi diceva capricciosa la Duse, accusandola di far la diva, non era nel giusto.

Quando vediamo un comico famoso, ancora valido, ritirarsi perchè in grado di vivacchiare in ristrettezze che gli evitino Io schifo di se stesso, vediamo un onesto italiano fare il proprio dovere.

Anton Giulio Bragaglia
(In foto Anna Magnani in “Anna Christie”, regia di Anton Giulio Bragaglia, 1939)


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