A Roma si parla di Anna Magnani con frequenza anche maggiore del consueto: perchè di Anna Magnani si parla sempre e non soltanto quando esce un film suo o quando recita in uno dei teatri.

Anna Magnani è uno di quei personaggi violentemente veri che si incontrano troppo spesso nei romanzi violentemente falsi. Somiglia a Rachel ed a Sarah Bernard, per un’ambizione, per un fuoco, per una generosità, per un’avarizia, per una luce battagliera e brillante che la rendono l’attrice tipo, l’attrice da raccontarsi lungo mille pagine melodrammatiche.

Appena si comincia a descrivere il suo viso, la sua casa, il suo genio, il suo cattivo gusto, ci si avvede di adoperare parole già logore, a furia di esser state utili per gli scopi di Alessandro Dumas o di Somerset Maugham.

E’ secondo me la maggiore artista italiana: e lo è non soltanto per il suo virtuosismo di scena o per la sua abilità sullo schermo, ma proprio per lo splendore dei suoi istinti.

In questi giorni le hanno dato un premio altissimo, il Comitato Nazionale Americano le ha riconosciuto un primato assoluto sulla proiezione dell’annata intera, sempre per “Roma Città Aperta“, che già le ha valso due premi qui in Italia.

Così Anna è stata assillata di interviste ed i cronisti hanno tirato fuori l’altro elemento drammatico della sua vita: ostentandolo, privandolo della delicatezza amorosa di cui Anna stessa lo circonda, e che ce la rende infinitamente cara.

Anna ha un bambino, bellissimo, biondo, colpito da paralisi infantile. Lo tiene in Isvizzera, a Lugano, con una governante che lo conduce ogni giorno di clinica in clinica, per i massaggi, le scosse elettriche, le cure di ogni genere, per cui le sue povere gambine malate dovrebbero riprendersi.

Ottocentomila lire ogni mese: la mamma lavora disperatamente, accettando anche film mediocri, che disapprova, per guadagnare molto denaro.

Andrà in America, accettando uno dei cinquanta contratti che le offrono, sempre per questo denaro: e tanta tristezza, tanta ansietà, tanta solitudine la renderanno più forte e più dura.

I. Brin