Il 26 settembre del 1973 moriva Anna Magnani.

Quella stessa sera di dieci anni fa, per una tragica coincidenza, mentre la malattia stroncava l’attrice in una clinica romana, la televisione trasmetteva “1870“, il film per la TV diretto da Alfredo Giannetti che costituiva la sua ultima interpretazione. In un recente e piacevole volume pubblicato dalla casa Usher, Bianconero, rosso e verde (nasce dall’omonima mostra presentata all’ultimo festival di Cannes su iniziativa dell’amministrazione provinciale di Pavia), nella carrellata fotografica su settantanni di cinema italiano, il volto di Anna Magnani è fissato in quattro immagini che, nella loro capacità sintetica estranea ai più logorati clichè, illuminano adeguatamente sulla parabola di questa grande attrice nel cinema italiano.

Dalla fruttarola di “Campo de’ Fiori” (1943) accanto ad Aldo Fabrizi alla donnina più curata di “Abbasso la miseria” (1945, badate bene lo stesso anno di “Roma, città aperta”) dall’interpretazione “Il miracolo”, episodio del Rosselliniano “Amore” con un insolito Fellini nei panni di attore, a quella drammatica e sofferta di “Mamma Roma” (1962) di Pasolini.

Ecco la rapida dimostrazione della versatilità di un’attrice che non fu mai completamente capita e valorizzata.

Il rimpianto che coglie oggi, ripensandola dieci anni dopo la sua scomparsa, è proprio questo: il cinema non ci conserva un’immagine totale e completa dell’Attrice perchè non ha saputo (o voluto) utilizzarla nella sua ampia gamma di possibilità espressive. Altro discorso richiederebbe forse il teatro, ma in questo caso la labilità della forma di spettacolo non ci consente altro che affidarci alla memoria di chi ebbe la fortuna di vedere Anna Magnani sul palcoscenico. E non certo solo negli anni ’60, quando vi ritornò per essere Pina in “La lupa” con la direzione di Zeffirelli. Ma ancora prima, nel 1954, in “Chi è di scena“, mesto scampolo di quello che era stata l’attrice di varietà. E prima ancora negli anni ’40 e ’50.

Su Anna Magnani grava un pesante equivoco che non è stato cancellalo neanche dallo sfogo che l’attrice consegnò, pochi giorni prima di morire, a Oriana Fallaci.

Alla giornalista (Oriana Fallaci – ndr) che le chiedeva della sua ironia dolorosa, l’attrice replicò scocciata: «Ma che vole? Che dice? Ma se me sento come una lucertola al sole?! Ma cos’è questo presentamme a ogni costo come una Elettra chiusa, solitària, delusa? Come ve lo devo spiegà che sò allegra, che ho la ruzza, che rido, che esse la Magnani me diverte da morì, e gongolo tutta se la gente me riconosce per strada, se il vigile urbano dice continuando a dirigere il traffico: «Ciao, Nannarè»?! […] Insomma: è la stessa storia di quando la gente si meraviglia perché la mia casa è piena di buongusto e di libri. Ma quante volte ve lo devo spiegà che non son stata raccattata per strada, che ho fatto fino alla seconda liceo, che ho studiato pianoforte otto anni, che ho frequentato l’Accademia di Santa Cecilia?…»

Pochi capirono la poliedricità dell’Attrice. Registi, critici e pubblico si adeguarono troppo presto a un’immagine che le stava stretta.

«La gente è pigra – andava ripetendo – non vuole lare sforzi di cervello, di immaginazione. Ma guardatemi, dico! Sono un’attrice si o no? Se sono un’attrice non potete inchiodarmi tutta la vita ad un ruolo».

«La tua vera strada è sul palcoscenico. Al cinema più che bravura ci vuole fotogenia» le andava dicendo Goffredo Alessandrini, suo primo grande amore e marito, che la diresse, quasi per metterla alla prova, in “Cavalleria”.

Quella ragazza che aveva fatto la gavetta sulle tavole impietose del teatro di varietà, che aveva attraversato con difficoltà gli anni dei telefoni bianchi e delle storie esotiche, tutte zucchero e amoretti, si era ritrovata, forse senza rendersene conto, “Musa del neorealismo”.

La sua intensa e genuina carica espressiva aveva trovato adegualo sfogo nel volto di Pina, il volto dell’Italia che usciva dalle macerie del dopoguerra, ma “Roma città aperta” l’aveva troppo pericolosamente legata all’esperienza del neorealismo. Dopo, e fu una stagione breve che si esaurì con rli anni ’50, fu attrice ammirata ma incompresa.

Quel ruolo di popolana l’aveva segnata, creando un equivoco che neanche la critica più attenta riusci a superare.

Scriveva Michelangelo Antonioni nelle vesti di critico nel 1945: «È un bell’animale Anna Magnani, un animale stupendo, pantera o cavalla in libertà. Caracolla attraverso i copioni con il sesso in faccia, poi si scatena, poi alza le gambe anteriori e si scopre per ti gusto di scoprirsi… Perchè lo fa Anna? Chiedete ad Anna perchè lo fa. Non saprà rispondere. Perchè è pantera o cavalla senza briglie…»

Antonioni riduceva a doti naturali le capacità interpretative dell’Attrice negandole la consapevolezza di sè. In questo senso è molto più condivisibile il giudizio che espresse Alberto Lattuada “a caldo”, subito dopo la morte dell’Attrice: «Anna è stata un’attrice che ha dato forma di arte scenica esemplare a quello che, inizialmente, poteva restare soltanto un forte temperamento di natura istintiva».

Il neorealismo, esaurita la sua carica propulsiva, degenerò presto in due filoni che ne enfatizzavano alcuni tratti caratteristici. Da una parte la frantumazione regionale e dialettale, dall’altra l’osservazione della realtà che assume le cadenze della commedia, all’italiana o italiana che si voglia.

Maschera tragica e animalesca del neorealismo Anna Magnani ha la sua ultima, vera occasione nei cinema italiano con Visconti. Quello di Maddalena Cecconi è uno stupendo personaggio che, superando i limiti del benevolo paternalismo del neorealismo, offre in “Bellissima” uno spaccato magari meno realista ma certo più spietato e reale della società italiana che si sta avviando a vivere la grande stagione illusoria del boom economico.

Dopo l’Attrice resta la popolana romanesca di fronte ai nuovi romanacci, Sordi in prima fila, portatori di aspirazioni piccoli borghesi, scalatori sociali per eccellenza, costi quel che costi. Anche per il suo pubblico Anna Magnani restò sempre Nannarella, la trasteverina de Roma. Anche quando vince, prima attrice italiana, l’Oscar per la sua interpretazione in “La rosa tatuata” (1956).

Ormai star internazionale, grande amica di Tenessee Williams, paragonata ad Hollywood ad un mito come Greta Garbo, la Magnani rinuncia presto al sogno americano. La richiama in Italia un figlio che lei ha voluto tutto per sè.

Lei, madre forse prima e più che attrice, sa cosa significa crescere senza padre e con una madre lontana. A lei raccontavano la favola di una madre ricca principessa in Egitto e le cantavano, passeggiando sul lungotevere, “Reginella”.

Al piccolo Luca raccontavano quella della mamma grande attrice nella Mecca del Cinema.

Anche Pasolini, che pure fu l’ultimo vero regista a cercare Anna Magnani, a volerla in un suo film, dovette poi confessare di avere sbagliato, di non aver saputo comprendere l’Attrice: «… È stato un mio errore credere di poterla completamente prendere nelle mie mani e distruggerla. Era assurdo e inumano da parte mia pensare questo; e infatti Mamma Roma ha questo limite».

Il regista poeta credeva di lavorare con un’attrice, spontanea, istintiva, da manipolare. Era ancora l’equivoco del neorealismo che si ripeteva quasi vent’anni dopo.

L’Attrice si lamentava spesso di questa gabbia in cui l’avevano rinchiusa. Rivendicava la sua completezza d’attrice e la sua voglia di divertirsi, di “ruzzare”, come diceva lei.

E pensava certo anche al Principe Antonio De Curtis, che la chiamava sempre e rispettosamente Signora Magnani anche quando facevano coppia e facevano ridere in giro per i teatrini d’Italia. Lui che era stato a sua volta costretto (e inflazionato) in quella maschera comica che tutti conosciamo e che non gli permetteva altre dimensioni interpretative.

Con Anna Magnani, come con Totò, il cinema italiano ha contratto un debito che mai potrà saldare.

Giovanni lozzia
(si ringrazia “I Siciliani“)