Uno dei tanti ricordi che ho del Circeo insieme a mia madre risale ai primi anni in cui fu costruita la nostra casa, intorno al 1950/51.

Allora il Circeo, nonostante fosse vicino a Roma era molto isolato e con un grande fascino. C’era una natura arida e selvaggia (nascevano solo piante, spontanee), un sole violentissimo, il canto delle cicale continuo e assordante almeno fin quando non ci si abituava, un’aria piena di odori acri e forti.

Nella zona di Quarto Caldo dove è stata costruita la casa non c’era proprio nulla, non c’era acqua, non c’era luce; la strada per arrivarci era una specie di mulattiera da percorrere con grande attenzione, rischiando in qualsiasi momento di rompere la coppa dell’olio della macchina.

Era faticoso viverci, perché per procurarsi qualsiasi cosa, dall’acqua alla spesa alimentare, con non pochi problemi si doveva raggiungere il Paese. Per fortuna c’era Luigi, il figlio di compare Costantino, il guardiano della villa accanto, che aveva una Jeep lasciata dagli americani alla fine della guerra, la quale divenne il mezzo di collegamento tra noi e il Paese, Paese che, dopo il lungo soggiorno che vi facevo da bambino, alla fine mi sembrava una grande città. Bisognava molto amarlo il Circeo per costruirci casa, mia madre l’ha costruita.

Proprio a quegli anni risale ciò che sto per raccontare. Era il 29 luglio, mi ricordo la data perché ricorreva la festa di S. Felice martire molto sentita all’epoca dai Sanfeliciani; era una festa tutta loro e non per i villeggianti anche perché non ce n’erano.

Si svolgeva in piazza e il momento più importante della festa era l’albero della cuccagna, un palo altissimo, più alto delle case circostanti, completamente ricoperto di sapone, su cui ci si doveva arrampicare per raggiungere e conquistare i premi appesi in cima. All’epoca avevamo un guardiano, Francesco Coccia, di circa sessanta anni.

Aveva iniziato a lavorare da noi prima che la casa fosse finita, tanto che per un certo periodo aveva dormito sotto le stelle. Quel 29 luglio partimmo tutti per la festa: mia madre, una mia zia, io, Francesco e non ricordo chi ancora, ma eravamo diverse persone.

Francesco, che per le grandi occasioni si tirava a lucido come un damerino, si sentiva particolarmente felice ed orgoglioso per il fatto di uscire con “la mia signora” (così chiamava mia madre quando ne parlava con altre persone). Aveva con sé un sacchetto, che non si addiceva molto all’abito elegante che indossava, ma nessuno ci fece caso più di tanto.

Andammo alla festa con la macchina di mia madre: una Buick decappottabile elettricamente, color bordeaux, cambio automatico, volante e pomelli vari in bachelite bianca, sedili di pelle (più che sedili erano divani), gomme con la fascia bianca, targata N.Y.

In quella circostanza la Buick divenne la seconda attrazione della festa dopo l’albero della cuccagna. Tra i vari premi che pendevano dall’albero della cuccagna, tutti premi commestibili, come salami e formaggi, si notava una mortadella grande quanto un bambino, donata da mia madre. Al momento della conta per stabilire l’ordine dei candidati alla scalata dell’albero, vediamo apparire Francesco, che era sparito da un po’ di tempo, con indosso una vecchia tuta da meccanico, il famoso sacchetto sospetto, le numerose tasche rigonfie di non si sa che cosa.

Noi rimanemmo tutti di stucco; mia madre cominciò a dire “il mio vecchio è matto, il mio vecchio è matto”. La piazza iniziò a rumoreggiare un po’ per incredulità e un po’ per affetto, perché Francesco era molto amato in paese. Gli altri concorrenti erano tutti ragazzotti assai più giovani di lui. A Francesco toccò salire per terzo o quarto, gli altri prima di lui non erano riusciti che a salire pochi metri.

All’inizio della scalata di Francesco tutta la piazza cominciò a strillare, noi dal nostro palco, la Buick, facevamo un tifo da stadio, ma nello stesso tempo non ci facevamo illusioni sull’esito finale: sarebbe scivolato come tutti gli altri concorrenti!

E invece il nostro Vecchio tirò fuori il suo asso nella manica, le tasche della tuta. Cosa c’era nelle tasche? Tutte le tasche, ed erano parecchie, erano stracolme di cenere: ogni mezzo metro di salita Francesco si fermava e si cospargeva le braccia, il petto e gli stinchi con grandi quantità di cenere. Arrivò così in cima mentre la piazza strepitava entusiasta per la prodezza dell’amato concittadino, che come unico premio prese la mortadella della “mia signora”.

Per noi fu quasi una sciagura, questa mortadella non finiva mai e nelle stesso tempo non ce ne potevamo disfare, perché Francesco era molto orgoglioso del suo trofeo.

Quando poi negli anni successivi durante le sere d’inverno mi mettevo con Francesco a ricordare i tanti episodi della sua lunga vita a casa nostra, tornavamo spesso a parlare di quell’albero della cuccagna, rilevando soprattutto il fatto che Francesco con i suoi sessant’anni aveva battuto persone molto più giovani. Questa considerazione veniva sottolineata da Francesco che si rivolgeva a me con un’espressione tipica sanfeliciana dai vari significati: nesié?!

Luca Magnani
Associazione Culturale “Il Centro Storico”, agosto 2003


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