Nella città l’inferno sarebbe un incontro amichevole tra Anna Magnani e Giulietta Masina.

È, devo dire, un superbo saggio in cui, come due illustri campioni i quali producendosi in un’esibizione accademica, che non implica l’aggiudicazione di un titolo, gareggiano nell’offrire ai loro tifosi una lezione d’alto stile pugilistico, così le nostre due attrici che detengono incontestabilmente nel nostro cinema, anche per suffragio internazionale, la palma dell’arte interpretativa, si affrontano con nobile emulazione in un match in cui il pugno è rappresentato dalla battuta e la risposta dal primo piano.

Che se Anna Magnani domina da sola per tutta la seconda parte della vicenda, durante la quale il suo aspro personaggio progressivamente si incupisce, con la nera velocità del nembo, sino allo scoppio di selvaggia disperazione finale, Giulietta Masina ha precedentemente tutto il tempo di portare avanti una di quelle sue ineffabili creature disarmate e infantili, esitanti ai confini dell’irreale, qui per la prima volta con una umana concretezza che forse non aveva mai avuto.

I loro dialoghi notturni, attraverso i quali matura quella buffa sciagurata amicizia, amicizia tra il ragno e la farfalla, sono veramente dei formidabili pezzi di recitazione dopo i quali, senza offendere nessuno, tutte le altre nostre dive celebri possono andare a nascondersi.

Per cui io per me, Anna e Giulietta, le dichiaro per mio conto entrambe vincitrici, e sollevo insieme il loro braccio nel gesto rituale di trionfo.

Anna Magnani e Giulietta MasinaNaturalmente c’è anche un altro vincitore, che è Renato Castellani. Perchè due grandi attrici presuppongono un grande film, e Nella città l’inferno è un grande film.

È il primo capolavoro integrale che la giovane scuola italiana, riscuotendosi per un momento dalla sua lunga ibernazione, abbia dato dopo Ossessione, Paisà e Ladri di biciclette. È un film che per rigore, potenza, fantasia registica batte tutti i leoni d’oro, e nastri d’argento, e coppe e (perchè no?) Oscar decretati negli ultimi anni.

È così irresistibilmente “spettacolo”, nonostante sia un semplice bianco e nero e si svolga tutto dentro un braccio di prigione, spettacolo per forza propria, che tutti i supercolossi cromostereoscopici che durano ore e costano miliardi appaiono al confronto obesi e alla lunga soporiferi macchinoni.

È un film che piazza Castellani nel gruppo di testa del cinema internazionale.

Confesso che dopo Giulietta e Romeo, con tutti i suoi meriti formali e la sua squisita iconografia, non credevo più all’ispirazione di Castellani. Ero uno stupido.

Come avrete capito, l’inferno a cui si allude nel titolo sono le carceri. Queste carceri sono a Roma. Però, come ingenuamente si vorrebbe spiegare nella didascalia iniziale, è solo per pura necessità indicativa che l’azione si intende collocata a Roma, e quindi lo spettatore è pregato di non vedervi «nessun riferimento con la realtà».

A Roma, diamine chi non lo sa, le carceri sono tutta un’altra cosa! È il carcere femminile in cui non sono rinchiuse le vere e proprie criminali, colpevoli di delitti, ma le altre minori, colpite da piccole condanne, o di passaggio in attesa di giudizio.

È dunque uno di quelli che si chiamano film corali, formati dal confluire e intrecciarsi di personaggi svariati ognuno dei quali pone il suo caso.

C’è la servetta sciocca caduta nella solita pania del classico fidanzato specializzato nell’accalappiar domestiche per svaligiare la roba dei padroni; c’è la disgraziata sedotta e scacciata di casa che ha finito per annegare la creaturina; c’è la piccola detenuta innocua che attraverso il foro di una griglia si innamora del giovane meccanico all’angolo, e per gli uffici di una compagna di cella rilasciata arriva a intendersi con lui; e infine colei che le domina e le concentra tutte, la Egle di Anna Magnani, questo essere carico di vitalità popolana e belluina, questa Erinni finita passeggiatrice al Pincio, la quale alla fine, quando si ritrova di fronte a Lina e vede quello che ha fatto di lei, non si converte (Dio sia lodato!) ma non capisce più niente, sì per la prima volta, lei la donna tremenda, non capisce più niente, perchè tutte quelle che che erano le strutture su cui poggiava il suo duro e cinico mondo – miseria sfruttamento vizio – di colpo crollano ai suoi occhi, lasciandole davanti il vuoto.

Si sono girati credo centinaia di film sulle prigioni femminili, ma io non ricordo di averne visto un altro in cui questa difficile e bruciante materia umana sia stata trattata con tanta serietà, con tanto impegno morale privo di falsi moralismi, con tanto spietato coraggio e insieme con tanta tristezza.

Sarebbe ingiusto non ricordare Susi D’Amico che è l’autrice della sceneggiatura.

E non additare l’attrice giovinetta, Cristina Gajoni, che impersona Marietta con tanta sincerità e sensibilità.

E leggo bene, o il produttore è davvero il nostro Peppino Amato? Allora vuol dire proprio che qualcosa può sempre cambiare. Eppur si muove…

F. Sacchi