In questo articolo Antonello Trombadori,  uno dei suoi più grandi amici, ricorda com’era Anna Magnani

Anna non era un angelo. Ma la sua generosità non ebbe limite.

Perciò, a tutto diritto, si può dire che con lei scomparve un’attrice, una poetessa direi meglio, che non soltanto nel linguaggio e nei modi che la resero celebre, s’era venuta impastando con la città di Roma.

E’ destino soprattutto degli interpreti, così degli attori come dei solisti, dei cantanti, dei direttori d’orchestra, dei registi di teatro, non lasciare quasi altra traccia di sé che la memoria di chi li vide e li ascoltò, finchè egli vivrà.

Davvero essi sono dei campioni e le vittime più illustri dell’effimero. Quelli di essi, poi, che oltre ad essere interpreti (e certo il cinema e la televisione han fatto sì che l’oraziana invocazione “non omnis moriar”, non tutto di me morrà, abbia trovato modo di tradursi in realtà) furono anche personaggi viventi nel comportamento di ogni giorno, pagano più degli altri il danno dell’inevitabile sbiadire delle testimonianze.

Gran parte della persona di Anna Magnani fu proprio nei gesti, nelle parole, nelle passioni, che la morte spegne per sempre. Giusto è perciò tentare di recuperarne al massimo anche i minimi relitti finchè si è in tempo.

La biografia della Magnani che Giancarlo Governi ha composto (Bompiani editore, collaborazione di Anna Scriboni per le ricerche e la filmografia) è ricca di testimonianze e benché io non ne apprezzi il titolo “Nannarella” (il perchè è spiegato nel libro stesso) e per quanto un po’ troppo, a volte, vista dal buco della serratura, considero questa “scelta di vita” non priva di interesse e di commozione.

Vi sono inesattezze e approssimazioni: alcune inevitabili, altre evitabili. Ma, si sa, ormai la fretta rotocalchica induce anche i memorialisti più scrupolosi a fare passi grossolanamente consumistici.

Era alla Roma non angelica, impura, anzi, di tutte le impurità e le miserie della vita, ma aperta come le braccia spalancate del colonnato berniniano alla più totale tolleranza e comprensione, che Anna aveva ispirato la sua arte drammatica. Sicchè dalla finzione della bontà ella sapeva trarre il suono di tutte le corde della malizia e dalla finzione della malizia il suono di tutte le corde della bontà.

Occorre andare molto lontano, nelle viscere di Roma, per trovare le radici dell’umanità totale di Anna.

Io Roma e TuL’inizio della pianta potrebbe trovarsi nell’aura cupa e nei barlumi di sangue e d’oro dell’autobiografia di Benvenuto Cellini. Il viluppo centrale nella vita stessa e nell’arte di G. G. Belli: nella contraddizione che fu tipica di quel grandissimo dei poeti fra aspirazione alla salvezza e predestinazione alla caduta.

Le fronde si confondono con la risata (l’autoironia atroce e sbilenca dei mimi di Plauto) che fu di Ettore Petrolini, spezzata in tronco da “Sor Nonno co la fàrce”, mentre più fitta andava facendosi la sua luce nei tempi bui del fascismo.

Le cime delle fronde non hanno l’uguale perchè è ad Anna stessa che si deve il loro verde in quella dura stagione (ahi, quanto breve, ma quanto lunga anche, se si tien conto dell’oblio che il consumismo trionfante aveva tentato di decretarle!) che la vide andarsene via così, senza nemmeno darle il tempo di gettare tutto intero sul secolo ingrato il suo amaro e filosofico sberleffo.

Ma non è difficile immaginarlo, questo, con tutte le oscenità di prammatica come avrebbero fatto, nè più nè meno, faticando, certo, a superare la paura della morte, i maestri di cui s’è detto: Cellini, Belli, Petrolini.

Provatevi a ricantare in chiave surreale, sull’aria di “Signorinella pallida…”, come fecero la Magnani e Totò, nel 1940-41, il “couplé” della fioraia del Pincio.

Totò: «Signorinella pallida…».
Magnani: «Vi prego, giovanotto, son signora…».
Totò: «E’ meglio, troverò la strada libera / per starti accanto almeno un quarto d’ora…».
Magnani: «E sia, ma un nido tiepido / vogliate offrire a questa capinera…».
Totò: «Ho qui la stanza con l’ingresso libero…».
Magnani: «La garçonnière, ossia giovanottiera / oh, che schifezza…».
Totò: «Nel civettuolo nido dell’ebbrezza / voi sognerete un poco accanto a me…».
Magnani: «Vorrei sognare ma ogni tanto scrocchiano / le molle del sommier…».

Quante volte nella sua casa di Palazzo Altieri (quello stesso, sia detto per inciso, il cui portone su piazza del Gesù rimase per mesi cupamente chiuso dopo la breccia di Porta Pia), non nelle serate più loquaci e di mondo (un mondo assai ristretto di amici peraltro), ma in quelle nelle quali soli, per anni e anni, parlammo dei casi amari dell’esistenza, e della lotta dell’uomo per affrancarsi dalla servitù e dal bisogno, e dalle nostre stesse individuali angustie, quando giungevamo al “quia” delle possibilità per il mondo di riscattarsi davvero, Anna armava quel suo mutismo inquieto come di nube prima della bufera e poi, con un soffio che strappava le lacrime, diceva: «Ma tu ce credi? Davero?».

Rileggendo le pagine di questa biografia e apprendendovi anche cose che non avevo mai saputo (che all’inizio della sua vita di attrice furono magicamente Stoppa e Petrolini; che lavorò coi favolosi Ciccio e Bebe De Rege; che suo marito Goffredo Alessandrini l’aveva lasciata per sposare Regina Bianchi; e altro ancora, come, secondo me ingiustamente, che non si sentì mai appagata dall’incontro con Pasolini in “Mamma Roma”) mi è tornato nelle orecchie e nel cuore il dubitativo concertato, se così si può dire, di tutte le sue passioni.

La volontà di afferrarsi alla certezza materiale delle cose; la diffidenza quasi aggressiva; il represso bisogno d’amore; l’esplosione d’affetti e di odii così ricca da far intendere il processo psicologico della sua formazione di attrice. Un processo fondato sulla coesistenza di due spinte opposte e complementari: quella dell’avarizia e del possesso; quella della prodigalità e dell’abbandono di tutto ciò che le apparteneva.

Una grande attrice tragica, all’italiana, Anna fu, essendo interamente chiusa nella realtà specifica d’un luogo e d’una cultura.

Il luogo, per l’appunto, fu Roma, una città «di sempre solenne ricordanza» secondo l’affermazione del Poeta nella “Introduzione” ai “Sonetti”.

E non è a caso che i ritratti più universali di sé e di Roma Anna li abbia dati in due film che al nome di Roma si richiamano: “Roma città aperta” e “Mamma Roma”.

Se chiudo gli occhi le immagini di Anna che salgono dalla memoria quasi sovrapponendosi sono quella di lei medesima seduta sulle scale della casa di via Tiburtina mentre chiacchiera d’amore con l’uomo che poco dopo, nel rombo misto delle urla dei tedeschi e del suo grido di amante disperata, sarà portato via per sempre; e quella ugualmente sua propria, di “mater dolorosa” che fa danzare al figlio il tango col caschè nella Roma amara di quell’amaro e amorosa di quell’amore che c’è nei libri primi e nella poesia di Pier Paolo Pasolini.

E’ un’immagine al tempo stesso, da teatro dialettale e da tragedia universale. Ad Anna Magnani va reso finalmente tutto il merito di non aver mai tradito nel cinema il suo vero volto di grande costruttrice del dramma, di artista della scena che recita a tutto tondo per identificare e proseguire la vita, non soltanto per rappresentarla, tanto che la risata e il lamento vi raggiungono il medesimo valore di comunicazione emotiva.

Forse Federico Fellini è colui che, pur non avendola mai avuta nei suoi film, se n’è accorto più in profondo. In quell’intervista lampo del film “Roma” dove la risata muta di Anna riempie quasi lo schermo e i suoi occhi, poi, si rabbuiano perdendosi nella notte con una malinconia e un’ansia che non è possibile dimenticare.

A. Trombadori