La Lupa al “Maggio Fiorentino”

Il «Maggio Fiorentino» ha avuto quest’anno la sua attrattiva e la risonanza internazionale della presenza di Anna Magnani, che si è ripresentata, dopo un lungo periodo, in palcoscenico.

Anna Magnani è considerata grande attrice di cinema, ma la sua personalità artistica ha tali qualità intrinseche interpretative da poter accettare di essere anche La lupa di Verga, la cui avvenenza fisica di donna non oltre i trentacinque anni è determinante. Tuttavia, nel caso della Magnani, ed era prevedibile, tale apporto di presenza non ha inciso per nulla, trattandosi non di «recitare una parte» ma di crearla interiormente con accesa disperazione e cupa malinconia, sì che la fatalità della carne si tramuti in lacerazione della coscienza, sostituendo alla giovanile veemenza, tonalità cupe, tragici silenzi e sorde rivolte.

Tutto ciò è stato sottolineato acutamente da Carlo Terron del quale, a conferma, riportiamo le prime righe della sua critica quanto mai lineare ed efficace:

«E’ stato un triplice successo dalle proporzioni insolite: per il testo, per lo spettacolo e per la protagonista; per la protagonista, anche qualcosa di più, molto di più. L’applauso che accolse Anna Magnani al suo apparire in scena, cariche le braccia di un mannello d’erbe falciate, pallida, magra, divorata e devastata dalla maledizione infernale della carne insaziabile, chiusa nella sua nera solitudine, aureola demoniaca di anima dannata, ebbe la intensità e la lunghezza che toccano a un avvenimento eccezionale lungamente atteso. Ma fu alla fine che il magnifico pubblico della Pergola le decretò il trionfo e senza stancarsi di applaudire per più di un quarto d’ora la volle alla ribalta non so quante volte: coi suoi compagni e col regista, coi collaboratori della rappresentazione e poi sola e poi nuovamente con essi e ancora di nuovo sola».

La Lupa Anna Magnani


Al Teatro alla Pergola di Firenze, il 26 maggio 1965, in occasione del XXVIII Maggio Musicale, è stata rap­presentata «La Lupa», scene dram­matiche in due atti di Giovanni Verga, presentate la prima volta a Torino nel 1896. «La Lupa» è tratta dalla omoni­ma novella dello stesso autore, pubbli­cata in «Vita dei campi». Regia di Franco Zeffirelli.

Riproporre oggi la discussione polemica sul «verismo» di Giovanni Verga sarebbe davvero superfluo. Soltanto ci sembra doveroso il constatare come questa forma letteraria e teatrale risulti valida ed efficacissima anche coi tempi che corrono, che, in fondo, sono tornati al «realismo» per ritrovare quella poesia andata dispersa in tanti vani anche se lodevoli tentativi di nuove ed inimmaginabili forme.

La riprova dell’autentica vitalità del verismo scenico si è avuta alla «Pergola» per la riesumazione di La Lupa, opera quasi dimenticata, ma che, invece, segna una svolta, al fianco di Cavalleria Rusticana, del teatro italiano dell’ultimo Ottocento.

Il pubblico, che gremiva la gloriosa sala, si è abbandonato all’entusiasmo, non solo perché si è trovato di fronte un testo creatore di figure vive, realizzato scenicamente con eccellenza di interpreti e con una non comune regia, ma anche perché ha ritrovato quello che, da qualche tempo, non gli si offriva più: dell’autentico teatro.

La Lupa è dramma di una potenza introspettiva sottile e profonda, anche se la sua struttura risente di una elaborazione letteraria che lo rende meno essenziale, meno asciutto e meno sintetico di Cavalleria.

Dobbiamo aggiungere però che ne La Lupa non c’è neppure l’apparenza del banale fatto di cronaca, e se quel fatto è accaduto, il Verga lo ha strappato dalla realtà passandolo attraverso il vaglio della sua sensibilità e della sua poesia. Che è quanto dire il respiro dell’arte.

La trama non ha che intime complicazioni: alla superficie appare di una estrema semplicità. L’azione si svolge nella campagna di Modica: siamo su un’aia dove si radunano i mietitori, dopo una afosa giornata di lavoro. Si mangia, si scherza, si canta.

Il dramma inizia con l’entrata della «Gna» Pina, detta «la Lupa», ancora bella e provocante, nonostante i suoi trentacinque anni suonati, che, nella sua vedovanza, passa per una donna niente affatto timorata, bersaglio quindi di arditi scherzi e di maligne insinuazioni.

Ma ella è pazzamente innamorata di un giovane contadino, Nanni Lasca, sobrio e duro, che non vuole imbrogli: ha buon nome e buona salute, qualità che vuol spendere bene. Questo significa portarsi a casa una ragazza onesta con un po’ di dote; virtù e condizione proprio della figlia della Lupa. E lo dichiara.

«Gna» Pina, che non trova in sé, né sdegno per la ripulsa, né rifiuto per la richiesta, combina il matrimonio della figliuola Mara, timida e riluttante. Ma la ragazza ha già capito la rivoltante e segreta intenzione di sua madre; quindi non ritiene quel giovane il marito meglio adatto per lei, e lo ricusa. Però la «Gna» Pina, che è diventata l’amante del giovane, glielo fa sposare ugualmente.

Passano gli anni, hanno un bambino e potrebbero essere felici. Alla vigilia di Pasqua, Nanni si libera confessandosi del peso grave del peccato commesso, assicurando la moglie che le vuol bene e che rimarrà lontano da sua madre.

Ma ecco che costei ricompare, con la scusa della festa pasquale, ma in effetti perché non resiste a vivere lontana da Nanni; al quale propone di andare ad aiutarla in certi lavori dei campi. Mara non può scacciarla e d’altra parte sente che un grave pericolo la minaccia: la rovina del suo focolare.

Le due donne si scambiano parole violente e reciproche accuse. Vengono alle mani. Nasce un subbuglio scandaloso. Mara, piangente, se ne va col suo bambino.

La Lupa non accetta i saggi consigli di un compare: vuole rimanere nella sua casa. Nanni, che non sa sfuggire al suo malefico fascino, per liberarsene, l’uccide. La fatalità d’un destino si compie.

Tutto questo in mezzo ad una ardente coloritura d’ambiente, che arricchisce di suggestione lo spettacolo, ma quasi soffoca l’intimo dramma della donna sensuale, che per la sua passione calpesta gli affetti più sacri esasperando gli istinti dell’uomo soggiogato ai suoi voleri di femmina e i sentimenti stessi della timorata e dolce figliuola.

Un dramma violento tutto chiuso fra tre personaggi, in un clima di sangue caldo e di intensa religiosità non privi di superstizione.

Franco Zeffirelli, chiamando ad interpretare la difficile figura di «Gna» Pina un’artista della fama di Anna Magnani, ha tentato un colpo grosso.

La Magnani ritornando al teatro dopo molti anni di assenza, era attesissima, ma con la trepidanza dell’artista consapevole della sua responsabilità. Ha avuto fiducia nel regista, ed ha vinto.

Zeffirelli è stato il vero realizzatore dello spettacolo, anche perché ha cercato, ai fini del chiarimento psicologico e della accentuazione del colore locale, di inserire nel testo teatrale qualche battuta e qualche circostanza ricavate dalla novella.

Lo spettacolo gli è così fiorito nelle mani con un gusto ed una finezza eccezionali ed un movimento dei personaggi davvero «naturalistico», anche se, in alcuni momenti, eccessivamente colorito. Arbitrario, ad esempio, il finale del primo tempo, quando i due protagonisti, invece di uscire in silenzio, secondo le precise indicazioni dell’autore, si buttano avvinti su un mucchio di paglia.

Tuttavia, nell’insieme, il dinamismo del regista ha ben sostenuto l’asprezza di certe situazioni, l’irruenza del conflitto fra madre e figlia, dove le battute sono più violente. L’insistenza delle risse e il prolungato suono del «marranzan» hanno rischiato di turbare il significato e l’equilibrio di alcune scene.

Anna Magnani, che sia detto con tutto il riguardo, non possiede il fisico del ruolo, esattamente richiesto dall’autore e messo in luce dal disegno del Ferraguti quando la novella fu pubblicata.

Ma a suo merito — e questo vale per essere grande attrice — possiede le doti dell’interprete cui il personaggio è «calato dentro», come diceva Pirandello, sì da poterlo formare, esprimere, ingrandire con la forza della naturalezza, della fatalistica immobilità, della straordinaria espressione del volto.

La sua recitazione, tutta interiore e scavata e sofferta ha supplito magnificamente alla mancanza di una «provocante bellezza».

Anna Maria Guarnieri è stata una Mara di sottile e incisiva espressione, tanto nelle scene delicate della sua gioia festosa, come nelle altre atrocemente violente della sua disperazione.

Osvaldo Ruggieri, nell’ardua parte di Nanni — in cui l’onestà e la saldezza dei principi, che rilevano il primitivo elemento spirituale del dramma, lottano vanamente contro la sensualità bestiale che si è di lui impadronita — è riuscito a rendere i complicati aspetti del suo carattere con bella ed efficace forza interpretativa

Nel vasto quadro degli altri personaggi, che vanno lodati tutti per l’affiatamento dell’insieme, è da ricordare Gianni Mantesi, nel suo pacato e savio interporsi di pacificatore; la sincerità di Cecilia Sacchi, il Censi, Duse, Giannini, Laurenzi, Palmucci, Bertin.

Abbiamo volontariamente lasciata per ultima Ave Ninchi, cui era affidata la piacevole figurazione di Zia Filomena, alla quale — sbagliando — ha dato un tono buffonesco fuori luogo. Attrice esuberante, la signora Ninchi vuole sempre strafare e non comprende, date le sue ottime qualità, che è un errore.

Danze e musiche popolari siciliane, anche se insistenti, sono state ordinate egregiamente da Testa, le prime; da Nicolai, le seconde.

Un successo magnifico, di insolite proporzioni. Il «Maggio Fiorentino» può esserne lieto, ma dovrà cambiare il compilatore del programma, perché è ridicolo incorrere in errori come chiamare Francesco, l’illustre Federico De Roberto, Teresa la illustrissima Virginia Reiter; ed infine Giuseppe il truculento, popolarissimo, Giovanni Grasso.

Giulio Bucciolini


La Lupa al Festival di Parigi

In un Festival che è stato, nel complesso, povero di rivelazioni, l’Italia si è imposta facilmente con la compagnia di Franco Zeffirelli, che ha presentato dall’8 al 10 giugno La Lupa di Giovanni Verga, protagonista Anna Magnani, e il 12 e 13 giugno Romeo e Giulietta di Shakespeare, con Annamaria Guarnieri.

La critica italiana ha già giudicato entrambi gli spettacoli; qui basterà registrare le accoglienze che hanno ricevuto da parte del pubblico del Teatro delle Nazioni.

Negli ambienti mondani di Parigi, Zeffirelli è il regista della Callas, la Magnani il «monstre sacré» del cinema di cui si ricordano le interpretazioni di Roma città aperta e di La rosa tatuata.

Era dunque previsto che per la «prima» parigina de La Lupa le personalità del «tout Paris» si mescolassero, nel ridotto del «Sarah Bernhardt», agli intellettuali del Quartiere Latino, e che nell’atmosfera elettrica che caratterizza serate del genere i consensi e gli applausi andassero al di là di una valutazione «globale» e «obiettiva» dello spettacolo, per sottolineare piuttosto — come si fa negli stadi per gli «exploits» dei campioni — ora l’alzarsi del sipario su una scena agreste da presepe ed ora un movimento di masse sapientemente orchestrato; oppure le vivaci annotazioni su una processione di villaggio, o il gestire della Magnani che era insieme una Fedra di villaggio ed un personaggio alla Tennessee Williams, schiacciato dal peso di destini selvaggi.

C’era da scoprire un autore — Verga — che in Francia è noto soltanto ad una «élite» (una edizione de I Malavoglia curata dall’Unesco non ha trovato più di tremila lettori).
C’era una regia autorevole, tutta tesa ad esteriorizzare le passioni di un mondo contadino che si rivelava bruscamente ad un pubblico soltanto abituato agli aspetti «pittoreschi» della realtà italiana.

C’era, in un giuoco scenico da melodramma, il segno della tragedia greca. C’era la Magnani: forse ancora disabituata al palcoscenico per la lunga consuetudine con il cinema (diciamo soprattutto per la voce, non ancora impostata secondo le leggi acustiche del teatro), ma profondamente incarnata nel personaggio.

E c’era un’attrice, la Guarnieri, già apprezzata dal pubblico del Teatro delle Nazioni; c’era, con Osvaldo Ruggieri nella parte di Nanni, un’autentica rivelazione.

Il pubblico ha fatto festa, applaudendo lungamente gli attori, particolarmente la Magnani, e chiamando alla ribalta Zeffirelli.

La critica ha lodato i molti doni dello spettacolo, anche se ha trovato ( «France Soir» ) che «è per la presenza della Magnani che si accetta un testo conservatosi meno bene della Torre Eiffel, di cui è contemporaneo».

Una volta dette le reazioni del pubblico parigino bisognerebbe avviare tutto un discorso intorno al testo del Verga, e all’interpretazione che ne ha dato lo Zeffirelli. Discutere, anzitutto, se l’opera è più un dramma teatrale o l’abbozzo di un libretto d’opera (la regia di Zeffirelli non chiarisce il dilemma).

Considerare, poi, se non si sarebbe dovuto tentare una più esatta «storicizzazione» del testo, al di là di un cattivante ma epidermico folklore. Decidere, infine, se il ritmo ed il colore cercati dal regista non hanno lasciato zone d’ombra intorno alla psicologia dei personaggi.

Ma non è questa la sede per fare un tale discorso. Ci limitiamo ad immaginare che cosa sarebbe potuto diventare il dramma verghiano, pur nella sua schematizzazione, se la ricerca degli effetti esteriori fosse stata completata da un lavoro di analisi e di scavo: sui rapporti, ad esempio, fra la sensualità selvaggia e il religioso terrore della Lupa e di Nanni, sul groviglio dei sentimenti che legano ed oppongono madre e figlia, sui «dialoghi interiori» dei personaggi, che le battute «gridate» si limitano a riflettere.

Ugo Ronfani
Parigi, giugno 1965

Foto di copertina © Autore Anonimo
Per gentile concessione della Fondazione Franco Zeffirelli