Roma, febbraio

La porta del salotto si spalancò con violenza, come se l’avesse aperta il braccio di un uomo deciso. Entrò prima un gatto birmano, grande come un cane, poi un cane lupo, grande come un vitellino, e poi entrò lei.

Era fasciata in un paio di pantaloni blu e una maglietta azzurra, i piedi minuscoli calzavano babbucce ricamate. Senza tacchi, vestita così, era piccola e fragile e quando si fermò in mezzo alla stanza, fra quel cane e quel gatto che accanto a lei sembravano enormi, mi parve quasi indifesa: come un bimbo che fa lo spavaldo per timidezza ed ha bisogno di aiuto.

Invece il suo sguardo dardeggiò, terribile, ed appoggiando le mani sui fianchi disse: «Dov’è questo giornalista?».

La sua voce era grave e divertita insieme, ci gorgogliava dentro una goccia di ironia. Però c’era attenzione, e non ironia, in quella faccia senza trucco, che riesce ad essere bella anche nei momenti in cui sembra brutta, in quegli occhi cupi che scrutano la gente per capire se deve fidarsi o no.

Tendeva le guance scavate, senza un velo di cipria, pallide quando è triste e rosee quando è allegra, e i suoi capelli neri, che nessun parrucchiere riuscirà mai a domare erano carichi di elettricità.

«Li ho lavati poco fa per rischiararmi le idee», disse con una risata che scoprì i denti candidi e irregolari. «Li lavo mentre faccio il bagno, è più sbrigativo. L’ultima volta che andai dal parrucchiere fu per diventare bionda. Arrivai troppo presto a un appuntamento, mi annoiavo ad aspettare, e così pensai di farmi bionda. Che roba! Il giorno dopo tornai e li feci ritingere di nero».

Sembrava sforzarsi di mettere me e lei stessa a suo agio, di stabilire immediatamente una corrente di cordialità, e assomigliava pochissimo alla diva misteriosa che avevo incontrato, anni addietro, in casa di un attore romano, quando se ne stava raggomitolata in una poltrona, con le gambe unite sotto la testa, il mento appoggiato ai ginocchi, e taceva.

Anna Magnani donnaIl salotto era pieno di gente che parlava solo per farsi ascoltare da lei, in una gara di sciocca adulazione, e lei li fissava, senza vederli, e taceva. «Di’, Nannarè: a che pensi?», chiedeva in modo petulante l’attore e tutti tendevano ansiosamente gli orecchi per sentire almeno la sua voce.

Ma lei sbatteva le ciglia e non rispondeva. Era come se un muro di vetro la proteggesse dal resto del mondo, impedendole qualsiasi comunicazione con gli altri, e che non le importasse di riuscire più o meno simpatica.

Poi, d’un tratto, si alzò: con un lungo sospiro che poteva essere di dolore o di beffa. Indossava anche quel giorno i pantaloni, ma di velluto nero, e una giacca di maglia bianca.

Aveva le scarpe basse, ma mi sembrò, allora, altissima e forte: senza bisogno di aiuto. «Buonasera», disse tenendo educatamente la mano. E se ne andò con lentezza, senza aggiungere altro, mentre nasceva in noi un ingiustificato senso di colpa.

Anna Magnani non è una donna: è cento donne insieme, ciascuna delle quali cambia colore come le figurine di un caleidoscopio, ed ora vi appare cordiale, ora segreta, ora selvaggia come i più superficiali sono abituati a dipingerla.

Quella che mi stava davanti era, ad esempio, una signora paziente e gentile, che si muoveva con la grazia di una duchessa alla corte del re, accarezzava il suo lupo con la tenerezza che si deve a un neonato, e diceva: «Amo le bestie perchè non ti fanno del male. Ho pianto una settimana quando i russi misero Laika dentro lo Sputnik, pregavo la Madonna perchè non la facesse morire. Quando morì ne rimasi sconvolta come se avessero fucilato un bambino. La sera non mi riuscì di mangiare».

Questa signora che serba sempre soprese abita all’ultimo piano di palazzo Altieri, dove Carlo Levi ambientò gran parte dell’Orologio nel cuore di Roma.

É una casa che aiuta a capirla. La Magnani l’ha arredata con un gusto da intellettuale sebbene dica, con una smorfia: «Non mi piacciono gli intellettuali. Mi piacciono le persone intelligenti. É tutto diverso».

Nella camera da letto c’è solo un letto con una coperta di pizzo bianco d’estate e una pelliccia di guanaco d’inverno, un comò settecentesco, una sedia e un tavolo antico.

La stanza di soggiorno, invece, è piena di oggetti fragili e rari: vasi di porcellana cinese, palle di vetro sul pianoforte, libri classici accanto alla statuina d’oro dell’Oscar (che non si tocca perchè porta male), quadri d’autore alle pareti: De Pisis, Cézanne, Cocteau e i ritratti che incominciò a collezionare a sedici anni, quando Boni la ritrasse con un turbante e un sorriso appena accennato sul volto liscio e perfetto, quand’era un’attricetta agli esordi, in tournée in Argentina.

Alla Magnani, però, piace quello che le fece Leonor Fini, una delle poche donne al mondo che giudichi «sopportabili»: «Vede, io non amo stare con le donne perchè non sopporto il pettegolezzo. Io non sono mai stata pettegola».

Lo studio, infine, assomiglia allo studio di uno scrittore, anzichè di una diva.

C’è un ritratto della Duse: ma c’è anche una macchina da scrivere, col nastro consumato. Scrivere non è per lei un passatempo da dilettante: è un lavoro.

«Lo sa perchè non mi piace farmi intervistare? Perchè la voglia di intervistare viene a me: sono curiosa degli altri quanto gli altri lo sono di me. Sono sicura che dietro ciascuno di voi che mi venite a far le domande c’è un personaggio affascinante e una storia da raccontare».

I suoi amici letterati (ne ha molti) dicono che sia una scrittrice sensibile ed arguta. Del resto è l’unica donna di cinema, credo, che abbia scritto un articolo di suo pugno. Era un articolo sul primo soggiorno in America ed era talmente ben fatto che il direttore del giornale non cambiò nemmeno una virgola.

«Non sopporto gli attori che mettono il proprio nome in cima a un articolo scritto da un giornalista», disse, «non è dignitoso per loro. Anzi: è ridicolo». Per questo ha sempre respinto le offerte di chi voleva compilare la storia della sua vita offrendole cifre iperboliche: una rivista americana giunse ad offrirle sessanta milioni.

«Non è vero che rifiuti di pubblicare il romanzo della mia vita», disse la Magnani, «è un romanzo che mi piace, con tutti i suoi colpi di scena e i suoi capitoli tristi. Ma non voglio che lo scrivano gli altri perchè io sola posso farlo con onestà».

UNA TELEFONATA DI ORSON WELLES

Così, anche quando viaggia, si porta dietro la macchina da scrivere e, «se un ricordo mi assale, con un dito lo scrivo. So scrivere a macchina con un dito solo». Ha buttato giù, fino ad oggi, trenta cartelle. E con orgoglio mi disse che erano «trenta buone cartelle»: almeno così le aveva detto qualcuno che se ne intende.

Disse anche che le sarebbe piaciuto farmele leggere: ma le aveva perdute. Frugò dappertutto per ritrovarle. Non le ritrovò e ciò la fece irritare perchè colei che credono una donna caotica e matta è invece una donna ordinatissima che soffre a vedere un granello di polvere o le scarpe buttate in un angolo.

La sera, quando va a dormire, mette gli scendiletto a quindici centimetri dal bordo del letto, non un centimetro più non un centimetro meno, e perfettamente paralleli sennò svegliandosi le prende il nervoso; e se le capita di invitare a cena qualcuno e la cameriera va a dormire senza lavare i piatti, quando gli ospiti sono andati lava i piatti e li asciuga, e pulisce anche in terra, e dà aria alle stanze.

«Non potrei mai vivere in una casa che non fosse linda come uno specchio», disse vuotando il posacenere dove c’erano appena due mozziconi e togliendo dal pianoforte un bicchiere che avrei dovuto posare sul tavolo.

Ci crediate o no, è una donna casalinga e provvede lei a curare l’appartamento del figlio.

Dall’ottobre scorso, Luca, che ora ha sedici anni, ha lasciato il collegio in Svizzera ed è venuto ad abitare al Palazzo Altieri, insieme alla madre.

L’appartamento di Luca è sullo stesso piano di quello di lei, ma ha l’entrata indipendente perchè Luca è ormai un uomo ed è giusto che riceva gli amici che vuole, e faccia la sua vita.

Non c’è cosa al mondo che la Magnani non farebbe per Luca.

Quel ragazzo bellissimo e malato è la grande tragedia di questa donna ammirata, adulata, che potrebbe avere quello che vuole e non può avere l’unica cosa che conti per lei: un figlio che cammina come gli altri. Guarirà, dicono. Le operazioni che gli hanno fatto alle gambe in Svizzera sono abbastanza riuscite.

Ma la tragedia rimane e la Magnani non ama parlarne, per un giusto pudore e per paura che ciò possa ferirlo, perchè Luca è troppo intelligente e sensibile, e infine perchè la Magnani è una cosa e suo figlio un’altra.

Non lo disse: forse perchè pensò che non sarebbe stato cortese. Ma lo si intuiva osservando il suo volto che parlando di Luca era diventato chiuso ed ostile come quando l’avevo vista nel salotto dell’attore romano, e gli occhi le erano tornati lucidi, come quando parlava di Laika, la cagnetta morta dentro lo Sputnik.

Si guardava in giro aspettando che il discorso cambiasse: ma non di proposito, perchè sarebbe stato antipatico. Bisognava che accadesse un miracolo, ecco. E il miracolo avvenne: squillò il telefono.

Con un respiro di sollievo che non le riuscì di reprimere, la Magnani corse al telefono. Afferrò il ricevitore come se fosse una ciambella di salvataggio e stesse per affogare.

Per la gioia di restare a galla, si arrampicò sopra una poltrona, dondolando le gambe, e la sua voce era tornata squillante, parlando si arruffava i capelli come fa quando è molto contenta e diceva: «Grazie, macchè», come se si schermisse di un regalo che pensava di non meritare.

«Era Orson Welles», disse quando ebbe deposto il telefono. «Vuole farmi una intervista per la televisione americana. Dice che sono la più grande attrice del mondo». Rise come di una barzelletta, poi diventò seria e disse: «Non è vero. Non sono nemmeno una grande attrice e le spiego perchè. Io non so costruire una parte, non so stabilire un personaggio. Se il personaggio è autentico e mi commuove, voglio dire se lo sento come me stessa, allora sono capace di interpretarlo. Ma se sento puzza di teatro e di fili, voglio dire se è una marionetta alla quale bisogna artificialmente infondere vita, allora non ci riesco. Un’attrice dovrebbe riuscirci lo stesso».

Per questa ragione interpreta volentieri i personaggi di Tennessee Williams: perchè Tennessee Williams ha capito il segreto e le offre solo ruoli scritti apposta per lei.

«Tutto ciò che Tennessee scrive diventa un miracolo per me. É l’uomo più grande del mondo», disse la Magnani stringendosi le mani sul cuore.

«Ricordo quando venne da me la prima volta, col copione della Rosa tatuata che era ancora scritto a mano, senza le correzioni. Mi lesse il copione e avrei pianto di gratitudine. Senza conoscermi sapeva tutto di me».

Sono anni, ormai, che il commediografo americano scrive per Anna Magnani e l’entusiasmo di questo intellettuale di Broadway è l’omaggio più importante che potesse ricevere un’attrice per cui tutta l’America, da Hollywood a New York, ha perso la testa.Anna Magnani 1958

Per la Magnani, Williams scrisse anche l’Orpheus descending. «Voleva che lo recitassi a Broadway, ma come facevo a restare tanto in America, lontano da Luca? E i cani, dove li mettevo i cani? E poi non mi sentivo sicura del mio inglese. Odio gli insuccessi. Così Tennessee lo face recitare a una americana, ma n’ebbe una delusione non dimenticherò mai il complimento che mi fece per questo».

Williams disse alla Magnani: «Anna, com’è difficile scrivere un personaggio per te e metterlo addosso ad un’altra!».

CHAMPAGNE, POLENTA E SALSICCE

Ora Williams ha scritto un’altra commedia per lei e stavolta la Magnani debutterà davvero a Broadway: forse a fianco di Marlon Brando. La commedia si chiama La primavera della signora Stones.

«Immagini», esclamò la Magnani, «la storia di una donna sbandata come un animale randagio, gonfia di amarezza e di illusione…», e la sua faccia drammatica diventava davvero quella di un animale randagio e le sofferenze della signora Stones diventavano le sue sofferenze.

Ma di colpo si interruppe, con una risata: «Ora mi fa recitare anche in casa», disse. Cambiò discorso e spiegò di essere contenta di andare il prossimo autunno a New York: «Gesù, quei grattacieli: sembrano braccia che toccano Dio!».

Disse che amava New York come ama Roma, ma per ragioni diverse: «New York ha un fascino virile, New York è un uomo. Roma, invece, è una bella donna: languida, pigra…». E lentamente chiuse gli occhi, tese le braccia, rovesciò la testa all’indietro, per spiegarmi come vedeva Roma. Poi aprì gli occhi, ritirò le braccia, raddrizzò la testa, un po’ irritata di lasciarsi trascinare così.

Disse che non le piaceva viaggiare ma allo stesso tempo avrebbe voluto vedere tutto il mondo. «Tutto!», gridò abbracciandosi le spalle come se abbracciasse il mondo.

C’era cascata di nuovo, nella sua mimica: e fissò le braccia strette al suo esile corpo come se fossero le braccia di un’altra e di nuovo sembrò aspettare un miracolo che la togliesse dall’imbarazzo, e il miracolo avvenne.

Suonò il campanello e questa imprevedibile donna che odia le donne corse ad aprire a due amiche, giornaliste per giunta, che venivano a cenare da lei. «Sono donne intelligenti e non sono pettegole», disse leggendomi dentro il cervello.

Le amiche erano molto contente, le dicevano che quella sera era bellissima, e la Magnani sbuffava di impazienza: «Macchè bellissima. Posso essere bellissima, io? E poi la bellezza non conta. Levatevi il cappotto, vi ho preparato la polenta con le salsicce, si beve lo champagne».

Cominciò ad apparecchiare, senza l’aiuto della cameriera, e aveva ormai dimenticato New York, Tennessee Williams e il mondo.

E quando la polenta con le salsicce fu in tavola, dentro piatti di porcellana finissima, posati su una tovaglia di pizzo, mi sembrò di capire abbastanza questa spettinata signora che sa conciliare le cose più inconciliabili.

«Be’», disse, «io sono fatta così». E mentre lo diceva, con l’aria di scusarsi, la ritrovai indifesa e bisognosa di aiuto.

G. Prati